AUTISMO: STIGMA, SCOPERTA, CONSAPEVOLEZZA
- Helix Eventide
- 24 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Nell’odierno lessico, il termine “autismo” affiora con una certa insistenza: riecheggia nei dibattiti pubblici, si insinua nei palinsesti televisivi, domina le conversazioni sui social network e sugli articoli di stampa; eppure, sotto questa apparente familiarità, si cela un sapere ancora incerto, fragile e spesso ancorato a stereotipi mediatici o a semplificazioni cinematografiche cariche di simbolismo culturale che, seppur suggestivo, restituisce solo un pallido riflesso dell’effettiva complessità autistica.
L’autismo si rivela, invece, nella sua multiforme natura e avanza, silenziosamente rivoluzionario, tra i corridoi dei centri clinici e delle aule scolastiche; nella voce di chi lo vive e di chi lo avverte.
Non si riduce ad una mera diagnosi e, soprattutto, non a quel tipo di diagnosi che paradossalmente non riconosce una diversa modalità funzionale: un differente modo di percepire, elaborare, concepire, pensare, interagire, agire, esternare ed essere.
Affinché lo si possa cominciare a comprendere, è necessario effettuare una (quantomeno) breve indagine retrospettiva che non parta da una definizione, ma da una storia.
I Prodromi: l’Autismo Come Sintomo
Compiendo un passo indietro, la genealogia del termine affonda le sue radici nel 1911; quando lo psichiatra svizzero Eugen Bleuler coniò la parola “autismus” per descrivere uno dei sintomi della schizofrenia.
In quel contesto, l’autismo non era ancora considerato una condizione a sé stante, bensì un ritiro patologico
dalla realtà; una chiusura auto-referenziale del soggetto. Nasce, dunque, come segno clinico, non come entità nosografica autonoma e rimarrà confinato (per decenni) all’interno delle tassonomie schizofreniche.
Soltanto negli anni ’40, lo psichiatra Leo Kanner (in seguito all’osservazione di alcuni bambini) descrisse, per
la prima volta, un quadro clinico riconoscibile e distinto: l’Autismo Infantile Precoce.
I bambini da lui studiati non presentavano deliri né allucinazioni, ma manifestavano isolamento sociale, comportamenti ripetitivi ed una profonda difficoltà nello stabilire relazioni.
La sua fu un’intuizione innovativa che permise all’autismo di emanciparsi dalla schizofrenia e cominciare a delinearsi come “Sindrome del Neuro-sviluppo”.
Quasi in parallelo, il medico viennese Hans Asperger descrisse un diverso profilo clinico: bambini verbali, con intelligenza spesso superiore alla norma, ma con marcate difficoltà nella comprensione delle emozioni altrui
ed una certa tendenza all’ossessività verso interessi ristretti. Nasce così la sindrome che porterà il suo nome.
(Il suo coinvolgimento nel regime nazista rimane, tutt’ora, oggetto di dibattito tra chi lo smentisce e chi lo conferma).
Passiamo alla psichiatria categoriale e alle sue ambiguità.
Per diversi anni, tutte queste intuizioni restano in bilico tra chiarezza e confusione.
Nei primi manuali diagnostici americani (DSM-I e DSM-II), l’autismo è ancora incorporato alla schizofrenia.
Nel 1980, con il DSM-III, viene riconosciuto come disturbo autonomo, incluso sotto la categoria dei “Disturbi Pervasivi dello sviluppo”; un riconoscimento tanto necessario quanto incompleto, poiché circoscritto alle “forme più gravi” e “manifeste”.
Con il DSM-IV (1994), la classificazione si amplia: accanto al “Disturbo Autistico” compaiono la “Sindrome di Asperger”, il “Disturbo Disintegrativo Dell’Infanzia”, la “Sindrome di Rett” e il “PDD-NOS” (Disturbo Pervasivo Non Altrimenti Specificato). Volle essere un tentativo di ordinare il caos clinico, ma finì col generare ulteriori etichette insufficienti e/o fuorvianti.
Un rilevante punto a cui, tuttavia, non viene attribuito sufficiente valore e pluri-prospetticità osservazionale, è
il concetto di “disadattamento”.
Attualmente, nella pratica clinica, si registra un fenomeno piuttosto ricorrente: gli individui autistici non cercano supporto per l’autismo in sé, ma per il disadattamento che esso genera nel rapporto con l’ambiente.
È l’esterno a risultare inadatto, o meglio, inospitale e non il funzionamento neurologico della persona.
(Da clinico e persona autistica, posso confermarlo).
Questa osservazione apre la strada ad una nuova semantica: quella delle neuro-divergenze.
Fu la sociologa australiana Judy Singer (già citata in un mio precedente articolo) a proporre (negli anni ’90)
il termine “neurodiversità” (omologo neurale di “bio-diversità”), scardinando la logica deficitaria e restituendo dignità alle naturali neuro-peculiarità.
Nascono, di conseguenza, i termini “neurotipico”e “neuroatipico” che estendono la riflessione oltre l’autismo, fino ad abbracciare ADHD, Dislessia, Discalculia, Sindrome di Tourette ed altri DSA.
Successivamente, con il DSM-5 (2013), la psichiatria categoriale attua una sintesi introducendo un’unica etichetta diagnostica (denominata “Disturbo dello Spettro Autistico”) ed eliminando le precedenti suddivisioni. Si assiste ad un sostanziale cambiamento: lo spettro diventa un continuum e l’autismo viene declinato in infinite sfumature, più o meno evidenti, più o meno invalidanti, più o meno accessibili.
In definitiva, di per sé, l’autismo non esiste: esistono persone autistiche; ciascuna con un proprio meccanismo ed una propria capacità di coesistere (come ogni altro essere umano) con un’intelligenza brillante, con l’ADHD, con forme lievi o gravi di disabilità e quant’altro.
Oggi ci troviamo, ancora, di fronte ad un bivio: da un lato, sopravvive un’arretrata visione che considera l’autismo un sinonimo di deficit cognitivo, ignorando l’eterogeneità dei soggetti autistici; d’altro canto, si afferma un legittimo e consapevole movimento che chiede ascolto, possibilità di espressione, di rappresentazione e adattamento del background.
Prendersi cura di esso significa attenuare il “minority stress” e la disarmonia che un sistema rigido e standardizzato impone a chi se ne discosta.
Significa smettere di correggere e sostenere ogni tentativo di conversione/omologazione di ciò che non necessita
di essere né corretto, né convertito, né omologato.
Non è la natura ad avere un disperato bisogno di ricalibrazione, ma la società.
Partendo dal presupposto che non si tratta di un enigma da risolvere, ma di un’altra realtà da comprendere e accogliere, interrogarsi sulle proprie capacità di ridefinire i confini della “normalità”, riscrivere la grammatica dell’empatia, della convivenza e della collaborazione, rappresenterebbe già un buon punto di partenza per la costruzione di un mondo in grado di supportare e rispondere le/alle esigenze di tutte le menti, affinché queste possano prosperare (sviluppando ed affinando il proprio potenziale) cullate da un fertile terreno pronto ad accogliere i loro frutti.
- 𝐷𝑟. 𝑉𝑎𝑙𝑒𝑟𝑖𝑎 𝐺ℎ𝑖𝑠𝑢
𝑆𝑝𝑒𝑐𝑖𝑎𝑙𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑖𝑛 𝑃𝑠𝑖𝑐𝑜-𝐺𝑒𝑛𝑒𝑡𝑖𝑐𝑎
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