DSM: IMPLICAZIONI
- Helix Eventide
- 24 giu
- Tempo di lettura: 2 min
Negli ultimi due decenni abbiamo assistito ad un'espansione sistematica dei criteri diagnostici in età
evolutiva, con una tendenza progressiva a interpretare ogni deviazione dalla norma statistica come segno
di psicopatologia.
L'errore non è nuovo: la psichiatria ha sempre operato in questo modo e oggi questa attitudine si ripete
con una ostinazione ben documentata e con una sorprendente mancanza di problematizzazione nei dibattiti
clinici mainstream.
La realtà, sebbene spesso ignorata, è semplice: la neuro-atipicità non è sinonimo di disfunzione clinica e una differenza non è necessariamente un deficit. Tuttavia, il sistema classificatorio che governa la psichiatria contemporanea, e in particolare il DSM-5-TR, sembra disinteressarsi a questa distinzione.
Il DSM non è e non è mai stato uno strumento epistemologico: ci troviamo di fronte ad un sistema nosografico pensato per garantire uniformità comunicativa e standardizzazione operativa.
In altri termini: non è progettato per comprendere la mente umana, ma per catalogarla.
Questo può essere utile in contesti assicurativi o epidemiologici e può certamente facilitare il lavoro clinico, ma diventa pericoloso quando viene utilizzato come filtro primario per leggere la complessità dello sviluppo.
Prendiamo, ad esempio, un bambino con tratti autistici non invalidanti o con profili attentivi atipici, ma funzionalmente adeguati al proprio ambiente. Nel modello categoriale del DSM, la domanda implicita è:
"Questi tratti rientrano in uno schema sufficientemente riconosciuto da meritare un’etichetta nosografica?"
Nel modello dimensionale, ovvero quello di cui avremmo realmente bisogno, la domanda sarebbe ben diversa: "Questi tratti generano un disagio clinicamente significativo o una compromissione funzionale rilevante
nel contesto di vita specifico di questo individuo?"
Il problema, naturalmente, non è il manuale in sé, ma il modo in cui viene utilizzato, come se fosse una guida diagnostica e non una mappa amministrativa.
Il risultato è un'inflazione di diagnosi in bambini che presentano traiettorie di sviluppo atipiche, ma non disfunzionali, con una crescente confusione tra: variabilità neurologica (naturale all'interno dello spettro umano);
neurodivergenza (configurazioni atipiche, ma stabili e funzionanti); psicopatologia (disorganizzazione, sofferenza
e compromissione clinica).
Nel dubbio, si diagnostica; non per ragioni cliniche, ma per rispondere a delle richieste esterne.
La diagnosi diventa così un lasciapassare, un codice da inserire in un modulo, piuttosto che uno strumento di comprensione ed è proprio in questo snodo che la psichiatria, piegata alla logica della conformità, perde la sua funzione critica.
Una precisazione è necessaria: non si tratta di negare l’esistenza dei disturbi del neuro-sviluppo, ma di ridefinire
il confine tra differenza e disfunzione. Un sistema clinico che non è in grado di farlo (o peggio, non è disposto), rischia di diventare esso stesso un generatore di stigma.
La vera domanda non è "Questo bambino è diagnosticabile?" La domanda è: "Questo bambino è disfunzionale per sé stesso o solo per l’ambiente in cui vive?"
Quando la risposta è la seconda, la pratica clinica dovrebbe guardare meno al DSM e più al contesto.
Medicalizzare l’atipicità in assenza di una reale compromissione non è prevenzione; è abuso semantico e una forma raffinata di esclusione sociale mascherata da aiuto.
- Dr. D'mitrij Alexie Romanov
Specialista in Psichiatria Infantile
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